ROSETO. Ieri sera volevo
salire a Montepagano. Avevo sottomano due inviti. Entrambe per un
unco taglio di nastro: quello del marciapiede panoramico realizzato
sul lato nord-est del borgo-storico. Un invito proveniva dal sindaco,
Mario Nugnes e l'altro era stato diramato,
urbi-et-orbi-social,
dal pro-sindaco, Angelo Marcone. E già questa doppia
invitazione,
a dir vero, mi metteva un po' in crisi. Che faccio – rimuginavo
tra me e me – vado con l'invito del sindaco e magari si ombra il
vice, oppure con l'invito del vice e forse se ne ha il sindaco? Mi si
dice, infatti, che a codeste questioni di etichetta si tien assai dalle parti del
palazzo reale, pardon del Palazzo di città.
Alla fine, quindi,
non sono andato. Anche perché ero reduce da una puntatina al bel
convegno sulle pinete marine organizzato dall'amica Genny Mummolo e,
francamente, non avevo voglia di far altro. Ma soprattutto, non sono
andato perché questa storia di intestarsi i meriti di un lavoro
pubblico che acquista senso in funzione del panorama regalato dalla
natura più che da tutto il resto, mi ha francamente stufato.
A mio modesto
parere il “merito”, se così si può dire, di aver realizzato
quel marciapiede e sistemato quella via, non è tanto di chi ha
compilato le cartoffie per richedere il denaro pubblico necessario
oppure elaborato i disegni conseguenti (ed in ogni caso questo
merito, se c'è, va dato soprattutto a Simone Aloisi che l'idea
propose al sindaco e vice-sindaco di allora, Sabatino di Girolamo
e Simone Tacchetti); quanto attribuito, secondo
il mio cono visivo, agli operai che il cemento di quel muro hanno
impastato ed il pavimento di quel marciapiede hanno murato.
Senza di loro,
nessuna suola più o meno firmata avrebbe potuto esser posata sul
“belvedere”. Nessuna fascia più o meno attuale avrebbe potuto
impettirsi di gloria politica alla ricerca del consenso, politico
appunto. Nessun nastro più o meno tricolore avrebbe potuto
immortalarsi al taglio di qualunque forbice. Nessuna foto o
docu-films o video come diavolo si chiamano oggi, avrebbe potuto
assaporare la ricercata e sollecitata condivisione social. Niente di
tutto ciò sarebbe avvenuto senza quelle braccia di cui è
probabile nessuno conosca i “proprietari”; senza quella fatica;
senza quell'usura del corpo fisico che è poi la “condanna” (per
alcuni) del lavoro.
Proprio ieri
pomeriggio ascoltavo in macchina, su RadioTreRai, una bella intervista alla
sociologa Francesa Coin. Diceva che in Italia solo il 4 per cento dei
lavoratori è soddisfatto del proprio posto di lavoro: meno di tutto
il mondo. Parlava dell'usura del corpo e della mente dei “nuovi”
operai e lavoratori: quelli senza orario; quelli dal
“salario-rubato”; quelli dallo “sconfinamento” del tempo di
lavoro, costretti ad essere di fatto a disposizione delle aziende per
l'intera giornata vedendose pagata la metà appena.
Tutto ciò non
riguarda il marciapiede di Montepagano, ovvio. Ma a questo io pensavo mentre decidevo se andare o no. A questo e non ai like.
A questo e non ai video. A questo e non alle fasce. A questo e non ai
nastri. Ed alla fine non sono andato. In senso di solidarietà a chi
non l'ha mai chiesta e mai la chiederà; a chi non è nominato e mai
lo sarà; a chi fatica davvero per una paga sempre insufficiente
rispetto al sacrificio del proprio corpo e della propria salute.
Per loro e nessun altro sarei andato. Anche perché con quei pensieri in testa,
mi sarei sentito a disagio nel festeggiare presumo – almeno stando alle foto ufficiali – con chi non ha lavorato materialmente
al soggetto dell'evento.