Se osservi queste cittadine di mare – dove tutto sommato si vive benissimo – fuori dalle stagioni turistiche, ti accorgi come cambia la società giorno per giorno. Se le guardi nelle mattine dei giorni di lavoro, diciamo verso le 10, vedi soprattutto anziani, qualche mamma con il passeggino ed i furgoni dei corrieri. Alcuni degli anziani camminano con difficoltà. Nei loro sguardi c'è una risentita tristezza. Nei movimenti una lentezza forse non solo fisica. In ogni caso, la città non pare più quella che avevano vissuto da giovani.
Se le guardi nei week-end autunnali o primaverili, invece, il panorama cambia. Vedi il ragazzo che lascia il pitbull libero sulla spiaggia, poi lo richiama con ordini perentori, gridati in una lingua dura, che non è la nostra: nei suoi modi scorgi la rabbia. Vedi la famiglia con bambini anch'essa con un idioma che viene da straniere sofferenze. Anche qui la voce è dura, come di rivalsa: la città non gli appartiene. A poca distanza, magari, ci sono dei ragazzi essi sì nostranissimi: linguaggio alterato, strafottenza, sgommate se in auto. Anche qui la città non è la loro.
Ecco,
abbiamo delle città con dei lungomare a volte carini, ma che
sembrano fatti per un altra epoca, per un'altra società, per una
media-borghesia che non c'è più. Oggi, non vi è né contestazione
né accettazione della città: v'è indiferrenza ad essa. E, forse, indifferenza a tutto. Ed è una indifferenza diversa, trasversale alle età ed ai ceti
sociali. Si, la nostra è una società che accetta tutto, ma non
condivide nulla. Le città non la rappresentano più.
Una società del genere, si teme, è prontissima per la guerra. Che infatti viene accettata anch'essa come tutto.
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