Un anno dopo le
elezioni regionali, colui che doveva essere il redentore del
centro-sinistra abruzzese, il suo resuscitante, quel Giovanni Legnini
venuto dalla Roma dei Palazzi, va via dalla Regione accompagnato dal
bagaglio di un vistoso incarico governativo. E quelli che lo
batterono, non per virtù politica propria, ma per selfie-salviniano
ricevuto, vagano alla ricerca per i frammisti gruppi a caccia di
nuovi equilibri di potere. Nel frattempo l'Abruzzo è sempre colonia,
a volte con uso di cinghiali fin sulle spiagge.
In crisi le
fabbriche di quello che fu un tentativo di industrializzazione
statalizzata. In disfacimento le autostrade costruite a suon di
investimenti pubblici. Una sudditanza sociale e culturale che porta i
sindaci-Re delle monarchie assolute che sono i nostri Comuni
medio-piccoli ad omaggiare come Dei caduti dall'olimpo mediocri
governanti romani in visite fugaci. Un paesaggio politico decadente
al pari di quello fisico, che ormai deifica solo inutili e costose
piste cosiddette ciclabili.
L'Abruzzo è
asservito a logiche di mercato che lo escludono ed a disegni politici
romani che non lo considerano. C'è un mito soffocante e ossessivo
del “merito”, che dovrebbe premiare ed invece allontana le
giovani generazioni, sfruttate e mal pagate, che vivono solo grazie
ai lasciti di un ieri che fu momentano affrancamento dalla povertà.
Di ciò son tutti pienamente consci e tutti allo stesso modo
inconsapevoli.
Resistono i piccoli
feudi politici personali, le minute clientele locali, seppur sempre
più scollati dal resto della società. Una macchina sterile che gira
su se stessa senza produttività reale. L'Abruzzo è una cavia di
laboratorio costretta a mordersi la coda in una collettivtà sempre
più incattivita. Eravamo una baronia a viso aperto. Siamo diventati
una baronia mascherata. Come si addice a questo tempo di carnevale.
In cui tutti parlano così tanto pur non avendo nulla da dire.
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