lunedì 17 febbraio 2020

L'Abruzzo: baronia con uso di cinghiali

Un anno dopo le elezioni regionali, colui che doveva essere il redentore del centro-sinistra abruzzese, il suo resuscitante, quel Giovanni Legnini venuto dalla Roma dei Palazzi, va via dalla Regione accompagnato dal bagaglio di un vistoso incarico governativo. E quelli che lo batterono, non per virtù politica propria, ma per selfie-salviniano ricevuto, vagano alla ricerca per i frammisti gruppi a caccia di nuovi equilibri di potere. Nel frattempo l'Abruzzo è sempre colonia, a volte con uso di cinghiali fin sulle spiagge.

In crisi le fabbriche di quello che fu un tentativo di industrializzazione statalizzata. In disfacimento le autostrade costruite a suon di investimenti pubblici. Una sudditanza sociale e culturale che porta i sindaci-Re delle monarchie assolute che sono i nostri Comuni medio-piccoli ad omaggiare come Dei caduti dall'olimpo mediocri governanti romani in visite fugaci. Un paesaggio politico decadente al pari di quello fisico, che ormai deifica solo inutili e costose piste cosiddette ciclabili.

L'Abruzzo è asservito a logiche di mercato che lo escludono ed a disegni politici romani che non lo considerano. C'è un mito soffocante e ossessivo del “merito”, che dovrebbe premiare ed invece allontana le giovani generazioni, sfruttate e mal pagate, che vivono solo grazie ai lasciti di un ieri che fu momentano affrancamento dalla povertà. Di ciò son tutti pienamente consci e tutti allo stesso modo inconsapevoli.

Resistono i piccoli feudi politici personali, le minute clientele locali, seppur sempre più scollati dal resto della società. Una macchina sterile che gira su se stessa senza produttività reale. L'Abruzzo è una cavia di laboratorio costretta a mordersi la coda in una collettivtà sempre più incattivita. Eravamo una baronia a viso aperto. Siamo diventati una baronia mascherata. Come si addice a questo tempo di carnevale. In cui tutti parlano così tanto pur non avendo nulla da dire.

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