venerdì 3 settembre 2021

La città, anche se chiede qualcosa, in realtà dalla politica non si aspetta nulla

ROSETO. La città non è quella dei selfie o delle sedi elettorali; dei palchi o dei lustrini della propaganda; dei nastri tagliati davanti ai comitati elettorali o delle convention luccicanti. La città è invece quella della signora delle pulizie che incontro la mattina; della ragazza del bar che mi porta il caffé; della dottoressa che preferisce il lavoro manuale pur di restare nella sua Roseto; dell'artigiano che passa con il furgone alle sei del mattino; di chi apre la bottega all'alba; di chi si alza presto per andare al lavoro; di chi tira la carretta come può ed anche di chi distribuisce pacchi a chi non può: perché c'è anche, purtroppo, chi non può.

È quella città che, seppur chiede qualcosa alla politica, in realtà da essa nulla si aspetta. “Basta che vogliono bene a Roseto”, a volte senti dire. È quella città che magari vota per simpatie personali, senza guardare ai colori, ma all'uomo o alla donna che conosce. O magari, è quella città che non vota, perché l'astensionismo c'è e ci sarà. È quella città al dunque, sulla quale la politica sorvola; della quale parla solo per convenienza o al limite sfrutta soltanto nelle occasioni elettorali. Mi sbaglierò, ma è quella città che non vedo rappresentata.

Del resto, le campagne elettorali attuali scivolano sempre più verso la forma dell'evento mediatico; verso una forma di spettacolo in cui gli elettori sono semplicementi spettatori plaudenti; verso la forma delle convention aziendali. Quasi nessun candidato sfugge a tale cliché. Anzi, più l'età anagrafica dei candidati si abbassa, più tale tendenza viene portata al parossismo. Ed una tendenza pericolosa, perché oltretutto presuppone soldi: molti soldi. La politica così diventa un investimento, con tutte le conseguenze del caso.

Dietro questo approccio giovane, social, moderno, all'apparenza aperto, c'è appunto una visione aziendalistica della politica. E lo vediamo anche a Roseto, purtroppo. Ora, nelle aziende c'è chi dirige e chi è diretto; c'è il capo ed i sottoposti. Trasferito in un Comune, ciò significa che il sindaco s'intende come capo ed i cittadini come suoi dipendenti o clienti se non dei sottoposti? Vedete quanto è subdola una visione del genere? Vedete quanto, in fondo, è autoritaria una visione di questo tipo?

Personalmente, quando sento parlare di team di studio, esperti di marketing elettorali, di gruppi di lavoro tematici, eccetera, eccetera, entro subito in uno stato di difese politico-immunitarie. Perché tale aziendalismo, combinato con il sistema istiuzionale municipale italiano, è l'anticamera dell'autoritarismo soft, seppur municipale. L'impostazione cioè, che vede il sindaco eletto per cinque anni con poteri assoluti e nessun controllo democratico efficace. Non essendo certo efficace qualsiasi consiglio comunale, chiamato ad essere nei fatti solo cinghia di trasmissione del sindaco e della sua Giunta, dissentendo dalla quale rischia di essere rimandato a casa. E nessun consiglio è tanto sciocco da autosciogliersi!

Ma tant'è. Ogni cinque anni si viene chiamati a questo rito elettorale, che poi è una scelta tra chi sarà “sopra” e chi “sotto”. Sopra gli eletti, sotto gli elettori. Con gli eletti che saranno, specie all'inizio, osannati e riveriti dagli elettori. È questa la democrazia che ci tocca, oggi.

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